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S'Attitadora, la donna delle veglie funebri...

All'ombra de' cipressi e dentro l'urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro?
 

 

(Ugo Foscolo - Dei Sepolcri)

Le Attitadòras erano delle donne "incaricate di piangere il morto” attraverso un canto chiamato attitu.

 

Molti studiosi fanno risalire il termine al latino atat  (il guaito con il quale i comici manifestavano stupore) e altri al termine greco otototei (grido di dolore degli attori tragici).

 

Vestivano rigorosamente di nero e non erano necessariamente familiari dell’estinto ma potevano essere donne della comunità chiamate  appositamente per il loro particolare estro o per la loro bella voce. Le si

chiamava per esprimere il dolore della famiglia attraverso l’attitu - un canto funebre straziante, apparentemente improvvisato, ma che in realtà corrispondeva a delle forme ritmiche e melodiche ben precise. Rappresentava un ultimo omaggio della madre al defunto, come se gli si volesse dare per l'ultima volta il seno. Attitai  infatti, significa anche "dare la tetta".

 

Nella nenia funebre si esaltavano le qualità dell’estinto e a volte anche quelle della sua discendenza. A volte capitava però che l'Attitadòra istigasse, con il suo canto, i parenti a compiere gesti di vendetta in caso in cui il morto fosse stato ucciso. Leopold Wagner uno dei più grandi etnologi e glottologi della storia riconduce il termine attitar  a quello spagnolo atizar (aizzare).

 

La nenia era straziante e veniva spesso accompagnato da gesti violenti. Non erano infrequenti i casi in cui

l'Attitadòra si graffiava il viso, gridava o si chiudeva su se stessa lamentandosi. A Siniscola si battevano sulle cosce e sulla fronte. In alcuni paesi come Bonorva, Muravera e Orotelli questi sfoghi erano talmente violenti che le donne per rimettersi in sesto dovevano stare diversi giorni a letto.

 

I lamenti non si limitavano alla veglia funebre ma assumevano maggior vigore al suono delle campane che annunciavano l’imminenza dell’arrivo del prete che avrebbe accompagnato il defunto in cimitero. Si assisteva a una vera e propria opera teatrale il cui scopo era quello di provocare negli "spettatori" un impatto emotivo molto forte. Il canto durava fino a quando il feretro veniva calato nel sepolcro. La Chiesa, che poco tollerava la presenza di questa figura, nel 1553 condannò questo tipo di rituale e minacciò di scomunicare chiunque la ponesse in pratica.  Ma come spesso accadeva in Sardegna, i rituali pagani sopravvivevano e convivevano con le nuove credenze cattoliche dando luogo a un vero e proprio  sincretismo religioso che ritroviamo spesso in altre feste sarde come i fuochi di Sant'Antonio e soprattutto gli amuleti sardi sono ancora oggi testimoni di questo particolare fenomeno. 

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Oggi, l'attitu lo troviamo spesso in rime giocose, le più conosciute le ritroviamo durante il del Carnevale di Bosa.

Si graffiavano il viso, gridavano e a volte si buttavano in terra...

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Fonti:

Caredda G. Paolo, Le tradizioni popolari della Sardegna, Editrice Archivio Fotografico Sardo, Sassari, 1998;

Mattana Stefania, Ritualità della morte in Barbagia, Zènia Editrice, 2012

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