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Fico d'India: una questione spinosa!

Trent’anni di possesso e di lavoro

lo han fatto ben suo,

e le due siepi di fichi d’India che lo chiudono dall’alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione

dalla collina al fiume,

gli sembrano i confini del mondo.

("Canne al vento"- Grazia Deledda)

Settembre, tempo di scuola e di fichi!

Durante questo mese, non possono passare inosservati i mille colorati frutti arancioni dei “cactus” sardi che tanto affollano le campagne della Sardegna!

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Non si tratta di una pianta endemica infatti, appartiene alla famiglia del cactus ed è originaria del Messico. Naturalizzata in tutto il bacino mediterraneo, fu importata probabilmente in Europa da Cristoforo Colombo e company e fu chiamata dagli inconsapevoli viaggiatori “fico d’India” per via dell’errata convinzione di aver raggiunto le Indie! Vi immaginate? Si sarebbe potuta chiamare “fico d’America” se si avesse avuto la consapevolezza di trovarsi nel nuovo continente!

Una serie di errori storici e geografici che si sono trascinati nelle varie lingue fino ad arrivare a quella sarda secondo cui “figu morisca” si attribuirebbe alla traduzione dallo spagnolo “higuera de moro” (fico del moro – arabo) durante la dominazione spagnola in Sardegna.

Sempre presente negli scenari storici sardi e nella vita quotidiana degli isolani, fu utilizzata come recinto per i terreni agricoli - in particolar modo nella provincia di Cagliari - in seguito all’Editto delle Chiudende che sanciva il diritto di ottenere la proprietà privata a coloro che riuscissero ad

accapparrarsi un terreno delimitandolo da un recinto di pietra, una siepe o attorniandolo da un lungo fosso. Un periodo dettato dalla frenesia di diventare possidenti da un giorno all’altro descritta perfettamente da Melchiorre Murenu, il famoso poeta di Macomer.

In centro Sardegna, dove la pietra era l’elemento chiave del paesaggio, le recinzioni erano date dai muretti a secco – talvolta venivano usate le stesse pietre dei nuraghi - mentre nel sud dell’isola, dove c’era una maggior povertà, si utilizzò il fico d’india perché rappresentava il modo più economico e veloce per circoscrivere un terreno, dava una maggior protezione dall’intrusione nel terreno da parte del bestiame e inoltre rappresentava un’importante fonte di alimentazione, sia per l’uomo che per l’allevamento in caso di scarso raccolto. Non mancavano i furbetti: secondo un’indagine del regio Patrimonio, condotta tra il 1831 e 1833, qualche proprietario tagliava le pale interne della pianta per poi gettarle esternamente ed ampliare così i propri confini.

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Il suo frutto, ricco di contenuto vitaminico (C e B3), possiede molte fibre che favoriscono il transito intestinale ed è ricco di sali minerali (potassio, fosforo e calcio), per questo motivo viene spesso inserito nella dieta mediterranea.

Usato per fare la sapa e diversi dolci sardi e confetture, da esso se ne ricava anche un ottimo distillato. Ma viene usato anche nei gelati artigianali e in tempi recenti è stata addirittura sperimentata la birra “Figu Morisca”. È tanta la sua produzione che ogni settembre - ormai da una trentina d’anni - viene promossa la “sagra del fico d’India” nel paese di Dualchi, durante la 

quale si può assaporare il dolce tipico del paese, “sas zippulas de abba”.

Dall’anno scorso il frutto ha risvegliato l’interesse dell’Agris, che si occupa dell’area agricola e scientifica della Regione Sardegna. Con il progetto “Vivere in campagna” infatti, la Regione Sardegna punta a convertire il frutto in una vera e propria risorsa dell’economia locale e a difendere i suoi piccoli produttori: il fico d’India non si è mai commercializzato più di tanto ma è ora di valorizzari i giovani che scommettono nella sua produzione come è il caso di Spartaco Atzeni, di Sardara, che vanta un premio della Coldiretti, l’Oscar Green, per aver puntato su una qualità di fico d’India con meno spine e più polpa venduto a un prezzo veramente allettante non solo in Sardegna ma anche fuori dall’isola. Una produzione di fichi bianchi, rossi e gialli su un appezzamento di 7000 metri quadri.

 

Le proprietà di questa pianta sono innumerevoli e il costo è veramente irrisorio: richiede poca acqua anche se ne accumula tantissima nelle foglie e si adatta a tutte le condizioni climatiche, anche le più estreme. Per sopravvivere le sono sufficienti 1500 metri cubi di acqua mentre per un albero da frutto normale ne sono necessari circa 4.000. Il frutto è ottimo per combattere la stitichezza anche se non bisogna esagerare perché si rischierebbe di ottenere l’effetto contrario, soprattutto se il frutto non è molto maturo! Permette di ridurre l’assimilazione dei grassi depurando il fegato, stimola la diuresi che favorisce l’eliminazione delle tossine e dei liquidi in eccesso. Anche come cura è formidabile: contrasta il formarsi del colesterolo e aiuta a tenere sotto controllo i valori della glicemia, riduce il formarsi delle emorroidi e previene la gastrite.

Del fico però non si butta proprio niente! Con i suoi fiori - che ci deliziano la vista tra aprile e giugno - possono essere fatte delle gustose tisane che hanno un effetto rilassante oltreché energizzante. Dalle sue pale può essere ricavato invece un gel cicatrizzante - ottimo rimedio contro le scottatture - oppure una maschera per rinvigorire la crescita dei capelli. Chi avesse problemi di brufoli lo può usare per farli essiccare dato che aiuta a ridurre l’infiammazione! C’è anche chi commercializza l’olio di semi al fico d’India che viene estratto dalla spremitura a freddo dei semi efficace per il rallentare il processo di invecchiamento della pelle, prevenendo la formazione di rughe e donando alla pelle elasticità e luminosità.

Da esso se ne possono ricavare gioielli. Ben lo sa l’artigiana Sara Montisci che con il marchio "La ragazza del fico d'Indiaha ricavato dalla pala una formidabile collezione di orecchini, ciondoli e anelli e nel 2019 ha esposto a Milano alla manifestazione “Artigiano in Fiera”. C’è anche chi oltreoceano ha trovato soluzioni vegan friendly alternativi alla pelle e alla similpelle sintetica. Due giovani messicani, con il brand “Desserto”, hanno creato un tessuto per la creazione di abiti, cinture e scarpe! Potrebbe essere un’idea per futuri aspiranti sarti sardi!

Attenzione a come si raccoglie il frutto: tanto invitante quanto soggetto a tradimenti! Le sue piccole spine, quasi invisibili, si conficcano ovunque. Ben lo sanno i sardi che per coglierlo usano un guanto grosso oppure un attrezzo rudimentale chiamato “frocaxia” o “cannuga”. Questo strumento si ricava da una canna e si taglia in punta in quattro parti con un coltello per circa sette/dieci centimetri in profondità che vengono allargate con un sassolino al centro. Per evitare che queste quattro estremità si rompano vanno ancorate tra di loro con uno spago. Dopo quest’operazione lo strumento è pronto per l’uso! La canna deve essere abbastanza lunga per poter cogliere i frutti collocati più in alto. Consigliabile comunque coglierli dopo una giornata piovosa - per farlo ripulire delle piccole spine traditrici – ma soprattutto non ventosa!

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La pianta fu importata in Europa probabilmente da Cristoforo Colombo e per un errore geografico si è chiamata "fico d'India" e non "fico d'America"! 

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Dal frutto del fico d'India si possono ricavare dei deliziosi distillati, confetture ma anche dolci e gelati. Inoltre, le sue pale si prestano per ricavare ottimi prodotti per uso esterno: antiage, rimedi contro le scottature e per stimolare la crescita dei capelli.

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E' stata persino creata una birra aromatizzata al fico d'India! La si può gustare con dell'ottima carne presso il Birrificio di Cagliari che la ha prodotta!

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Sono stati persino creati degli orecchini, ciondoli e anelli dalle pale dei fichi d'India ...

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